Breve esercizio di ammirazione
In ricordo e in onore
di
Luigi Anepeta

Ufficialmente medico, psichiatra e psicoanalista (non selvaggio, ma selvatico quanto basta a non farsi intrappolare nelle convenzioni di una scuola), nel mio intimo, mi considero un panantropologo, vale a dire un uomo che condivide con altri, del passato e del presente, la vocazione a capire l’umanità e il mondo che essa finora ha costruito nei suoi molteplici aspetti, soprattutto in quelli che appaiono oscuri, equivocabili e incomprensibili. (Luigi Anèpeta)

 

Roma, 3 febbraio 2023

Di Fiore Bruno

Potenzialmente

fare e disfare un uomo

è come lavorare con la creta

Basta avere una sorta

d’implacata bontà

l’ardua tenerezza dell’asceta

e il mal di testa dell’alterità

(Luigi Anepeta)

 

Quanti incipit sono possibili per Luigi Anepeta?

 

Dovrò passare in rassegna un arco di vita i cui acuti si sono persi nei cieli

Dovrò dire qualcosa sugli inizi

Qualcosa sulle svolte meditate e su quelle repentine

Non posso dire le montagne di silenzi e le montagne di parole

Le parole perse e quelle che ci restano

Le promesse mantenute e quelle non mantenute

Le sconfitte e le vittorie

Le enormi potenzialità

E l’eredità culturale, spirituale, magistrale

Compito difficile il mio, quasi impossibile

 

Di Luigi Anepeta non si può parlare: su di lui si può riflettere, leggere, pensare, valutare, tirare qualche conclusione provvisoria e continuare sempre a leggere e a riflettere. A meno che non si abbia il dono della sintesi.

 

Si possono leggere i suoi scritti e la sua prodigalità ce ne ha lasciati tanti. E i suoi libri, a testimoniare il connubio tra prassi e teoria.

 

Proverò a raccontare gli anni dell’inizio della nostra amicizia e collaborazione.

 

Ho conosciuto Luigi Anepeta 48 anni fa. Era l’8 settembre del 1975: il mio primo giorno di lavoro nel padiglione XVII dell’Ospedale
Psichiatrico S. M. della Pietà.

 

Quando il primario, Franco Paparo, con cui avevo svolto i miei 2 anni di tirocinio mi disse: “Ecco ti presento il nuovo psichiatra” e il giovane psichiatra rispose: “Ciao ben arrivato, sono Luigi Anepeta.” Io aggrottai la fronte, arrossii, feci un mugolio e chiesi: “Anepetaaa?”. Al suo sguardo interrogativo gli dissi che da piccolo al mio paese sentivo tutti i giorni alla radio le canzoni napoletane e mi colpiva sempre l’annuncio: “Dirige l’Orchestra il Maestro Anepeta”, (con una “a” molto allungata). “Era mio padre” – Mi rispose Luigi. Lo disse in modo timido, con un filo di voce. Non so che effetto fece questa cosa a lui, ma ricordo ancora chiaramente l’effetto che fece a me, anche se non c’entrava nulla né con il manicomio, né con Roma, né con il nostro futuro lavoro insieme, che da quel giorno – posso dire – non è mai finito, fino all’ultimo dei suoi giorni.

 

La straordinaria intensità del lavoro antimanicomiale per me è concentrata tra il 1975 e il 1978, l’anno di emanazione della Legge 180. 

Prendevo il treno da Tuscolana a Monte Mario tutte le mattine e me ne ritornavo a casa verso sera, quasi tutti i giorni. C’era un fermento, un’ansia, un’atmosfera ispirata ed eccitata. Il primario dr. Franco Paparo era già anziano, ma correva più di tutti per il Reparto a tappare qualsiasi buco, a ordinare miglioramenti nell’arredo, nel vitto, nel tempo libero. Aveva mandato via le suore che boicottavano il lavoro anti-istituzionale iniziato. C’era Maria Teresa la psichiatra pre-femminista, che ogni giorno faceva riunioni con le ricoverate suddivise in gruppi; c’erano le infermiere: disincantate, sboccate, sindacalizzate che pensavano seriamente che i matti eravamo noi. C’erano le richieste di partecipazione alla vita del Reparto da parte di studenti, di medici, di maestre, di registi, di militanti politici. C’era un’aria pre-rivoluzionaria.

 

E c’era lui, Luigi, silenzioso, disponibile, timido – almeno sembrava esserlo – risoluto, invece.

 

Iscrivemmo alla scuola pubblica esterna le ricoverate più giovani per far loro prendere il diploma della III Media con le 150 ore. Luigi formava anche gruppi di teatro con piéces scritte da lui insieme con i ricoverati. Era una fucina degli dei.

 

Il fine settimana, solitamente di sera, partecipavo alle riunioni di Psichiatria Democratica a Roma – ma anche a Perugia, ad Arezzo e altrove – e riportavo al Reparto gli ordini del giorno, gli appunti, la concitazione, il fermento, le parole d’ordine, i risultati delle conquiste di Piro a Napoli e di Pirella ad Arezzo, con il sogno comune di chiudere quei luoghi e inventare una Nuova Psichiatria. E poi, a casa del primario dr. Paparo, le concitatissime riunioni, a cui partecipavano gli psichiatri da tutta Italia, in contatto continuo al telefono con deputati del PCI, di Democrazia Proletaria e degli altri partiti di sinistra. Quando la Legge 180 finalmente uscì lo vivemmo tutti come un traguardo mitico (senza tacerne le critiche!).

 

Le colonne d’Ercole quasi raggiunte.

 

E poi il breve ma intenso lavoro post legge 180:

 

La Zona-Ospiti

La comunità autogestita del pad. II bis

L’accompagnamento dei pazienti nelle loro famiglie

La ricerca di strutture sicure nel patrimonio edilizio comunale o per i più anziani in strutture idonee.

I programmi di dimissioni elaborati con gli operatori dei C.S.M. (Centri di Salute Mentale) che si stavano organizzando nei territori, con il passaggio graduale dei pazienti ad essi.

 

Il passaggio verso cui Anepeta non volle seguirci. Fu una scelta incomprensibile per me, fonte di discussioni e di disappunto. Decise di abbandonare quella che io continuavo a considerare la trincea, poiché la guerra non era assolutamente finita. Scelta che venne dopo un tempestoso incontro con un Primario del CSM, incontro che fece presagire a Luigi la piega che avrebbero preso gli eventi.

 

Lo avevo quasi odiato per quella decisione nel mezzo della lotta: lasciarci soli nell’immane compito di imprimere un segno nuovo, sperimentale, creativo all’organizzazione dei Servizi sul territorio. Dopo averci insegnato come si toglievano le fasce di contenzione alle pazienti psichiatriche; come si parlava con loro; come si ascoltavano; come si potessero fare in luoghi impensabili cose impensabili. Come si poteva lavorare veramente in gruppo. Non potevo credere che se ne stesse andando proprio il nostro irrinunciabile riferimento, Anepeta!

 

Soprattutto lo avevo odiato – ancora fatico a capirlo – per averci abbandonati a metà della battaglia, nel campo diventato quasi tutto nostro. Non poteva essere un’illusione, dovevamo ancora dimostrare a tutti che oltre a distruggere eravamo capaci di costruire.

 

Avevamo quasi vinto, l’esercito nemico si ritirava e le nuove leggi ci davano la possibilità di diventare egemoni. Egemoni nei fatti, con i traguardi raggiunti sul campo, ad onta delle forze di minoranza assoluta che eravamo (purtroppo mi vengono in mente solo metafore militari). Soprattutto egemoni nella ri-organizzazione dei nuovi Servizi, che con le nostre idee e i suoi insegnamenti avremmo potuto rifondarli, continuando il compito storico della lotta alle Istituzioni totali. E dovevamo continuare a consolidare i rapporti con i movimenti che si stavano potenziando: Medicina Democratica, Psichiatria Democratica, Magistratura Democratica e tante altre realtà.

 

Si aprivano nuovi spazi e non dovevamo colonizzarli né recintarli. Si poteva procedere nella totale libertà, non c’erano obblighi perché non c’erano modelli! La legge stessa non aveva dato alcun modello.

Luigi non era fuggito – lo sapevo – stava nelle retrovie a darci appoggio, ma la sua presenza sul campo era per noi necessaria: sarebbe servita a organizzare non solo il sapere e l’audacia, ma anche gli spazi di cura integrati nella più ampia libertà; fino a farli diventare sempre più spazi di cultura, di vita, di salute, alternativi, aperti – non soltanto ai malati e alle famiglie – ma alla partecipazione di tutti.

 

Volevamo l’utopia? Sì.

Eravamo incoscienti? Sì.

Eravamo preparati? No.

 

E forse lui a questo voleva supplire!

 

Da noi, a Roma, purtroppo, non era venuto Basaglia! Basaglia ci avrebbe ascoltati, capiti e appoggiati. Era arrivato qualche basagliano dal nord, che pensava bastasse il nome e il ruolo per creare nuovi servizi.

Invece non bastava, bisognava continuare a sperimentare in un dialogo vero e costante che di fatto mancò. E mancava Luigi, ci servivano in quel momento più che mai le sue idee, le sue ipotesi, le sue sperimentazioni, la dialettica. Ci serviva lui dentro i Servizi, non fuori e non solo disponibile alle consulenze.

Ci serviva un seminatore con i semi in mano.

 

Così – in quel confuso fervore di cambiamento – non siamo riusciti a contrastare del tutto la furbizia, il tradimento, l’accontentarsi, le piccole scalate, i piccoli poteri, le carriere, il vivere alla giornata, i compromessi.

 

Nonostante tutto ciò, abbiamo continuato la nostra battaglia nei Servizi. Alle spalle avevamo l’esperienza e la ricchezza degli anni di lavoro con lui e avevamo la possibilità di continuare a ricorrere al suo appoggio, alle sue riflessioni, alle sue ricerche, alla sua teoria. Questo – al di là delle difficoltà – ci sorreggeva nelle sfide.

 

Intrappolato tra la mia – la nostra – delusione per il suo abbandono del Servizio pubblico, Luigi mi propose una delle sue geniali invenzioni: organizzare Seminari formativi alternativi, aperti a tutti gli operatori e le operatrici che avevano lavorato o seguito l’esperienza antimanicomiale, per preparare una resistenza culturale e professionale, contro l’eventuale deriva del nuovo corso politico-istituzionale della psichiatria dopo la 180.

 

Nata solo in parte dai sensi di colpa, ma soprattutto dalla sua fucina privata, l’idea fu una spinta incredibile. Era una delle intuizioni geniali che si affacciavano al suo spirito, che contemporaneamente elargiva, e verificava, ma, soprattutto per noi, è stata un’ulteriore fortissima spinta psicologica e una vera sfida culturale.

 

Senza alcun merito mi sono così ritrovato all’improvviso – e senza averne mai avuto sentore prima – interprete dei geroglifici di Luigi e questo mi ha permesso di poter trascrivere tutto quello che lui scriveva, di stamparlo, distribuirlo e archiviarlo.

 

Nacque un vero e proprio Laboratorio di analisi, riflessioni e proposte: un’esperienza unica di didattica, apprendimento e ricerca di cui alcuni operatori hanno continuato a servirsene per tutta la loro vita professionale e umana.

Ci siamo ritrovati così in un cenacolo, in una piccola università, anzi più giusto immaginarla come una Scuola di alta formazione sotto la sferza teorico-pratica di un maestro eccellente e impagabile, più vicino ad un monaco tibetano, per l’inaudita pazienza e l’assidua tenacia. Lavorava anche di notte per noi, producendo nuovi capitoli ogni 15 giorni. Per settimane, per mesi, per anni fino a configurare quella che senza alcun dubbio può definirsi una geniale e innovativa Teoria del disagio psichico: la Psicopatologia strutturale e dialettica, che negli anni a venire sarà aggiornata e completata da ulteriori ricerche, riflessioni, esperienze sul campo, le cui potenzialità, direi, sono ancora da sviluppare.

 

I temi sono profondi, impegnativi, interdisciplinari. Gli autori di riferimento sono mostri sacri dell’Antropologia Culturale, della Storia, della Filosofia, della Psicoanalisi e dell’Economia critica. Le culture trasversali e storicamente profonde: non solo Marx e Hengels, ma Labriola, Mondolfo, Gramsci; non solo Freud e Jung ma Jaspers e Bleuler, Adler e Reich. Così pian piano si arriva alla ridefinizione della Teoria dei bisogni, a Lukacs, alla Heller, a Marcuse, ai francesi della Nuova Storia, al concetto di Mentalità più che di Ideologia e all’inconscio sociale.

 

È solo con questo retroterra che si potrà infine arrivare a quella che è stata -ante litteram – una Nuova Scienza del Disagio Psichico.

 

La pratica psicoterapeutica con giovani e adulti, arricchita dall’esperienza manicomiale, che portai avanti tra mille difficoltà, in un ambiente aspramente ostile (quello romano), sorretto dalla collaborazione di un gruppo di operatori con i quali si stabilì un rapporto di intensa condivisione ideologica e di profonda amicizia, destinata a durare negli anni, mi offriva di continuo suggestioni per andare avanti in un lavoro di ricerca. Agli inizi degli anni ’80, dopo avere dato le dimissioni dall’ospedale psichiatrico, conscio che, con la morte di Franco Basaglia si sarebbe avviata la restaurazione e intuendo nell’aria un clima culturale che rendeva necessaria la teorizzazione, avviai, col gruppo di operatori miei amici e con pochi altri che si aggregarono, un lavoro di ricerca e di formazione destinato a durare nove anni e ad approdare a degli esiti che, a posteriori, sarebbero risultati tali da superare le aspettative originarie, così scriveva lui stesso riassumendo questa esperienza.

Ho capito solo molto tempo dopo che – usando le parole di Cioran – lui aveva bisogno di

 

tenersi in disparte, 

che lui aveva una regola di vita in ciascuno dei suoi istanti, 

su ciò che essa – la vita – presuppone

di solitudine e di ostinazione sotterranea

Incarnava l’essenza di un essere situato al di fuori

che prosegue un lavoro implacabile e senza fine.

Ogni vero intellettuale, scrittore, poeta, scienziato

compie uno sforzo simile.

È un distruttore che accresce l’esistenza,

che l’arricchisce scalzandola.

(E.M. Cioran, Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti, Adelphi)

 

Da questa persona, che, comunque, continuava ogni giorno a lavorare, pensare, proporre, spiegare e cercare di far fruire le sue idee e le sue intuizioni, costantemente attento alle realtà circostanti; che sapeva vedere attraverso la filigrana dell’aiuto psicoterapeutico, non potevano che scaturire opere come: Abracadabra, Star male di testa, Abbecedario di Scienze Umane e Sociali come “Manuali di sopravvivenza” per le persone sensibili che hanno paura di affogare nel turbinio di società allo sbando. E proporre – di conseguenza – una partecipazione attiva alla propria liberazione, fondando e facendo crescere organizzazioni reali, tangibili e non soltanto difensive, come è stata e potrà continuare ad essere la LIDI (Lega per i Diritti degli Introversi).

 

L’ultimo sforzo teorico, che avrebbe impaurito qualsiasi tempra di studioso o divulgatore, è stato la preparazione e la gestione di un ciclo di conferenze su quelli che ha definito: i Grandi Demistificatori: Darwin, Marx, Nietzsche e Freud.

 

E da ultimo, come se questo incessante operare teorico e pratico non bastasse, negli ultimi anni, Luigi ha voluto lasciarci un’eredità impressionante per la mole e la qualità dei materiali: prima il sito www.nilalienum.it, dove si trovano i testi citati e un infinito materiale culturale, nonchè da ultimo la Casa Editrice omonima.

 

Luigi ha speso le sue ultime energie ultimando un lavoro letterario sorprendente, a mio avviso un capolavoro: la ripresa e l’ultimazione di una raccolta di Racconti geniali, commoventi, ironici, talvolta surreali.

 

Con l’aggravarsi della salute negli ultimi tempi è cresciuto in lui il rifiuto di patire con l’accanimento terapeutico inutili sofferenze non accettando cure dettate dalle statistiche e non dai bisogni. E così se ne è andato coerente con la sua visione, ha smesso di resistere nonostante la sua mente continuasse a produrre riflessioni, idee, proposte, suggerimenti, analisi, sogni, racconti. La sua mente prodigiosa.

 

Per me è stata una consolazione, un onore, un privilegio essergli stato vicino fino all’ultimo dei suoi giorni. E quanto mi piacerebbe avergli potuto presuntuosamente dire

 

Finchè Ataualpa

o qualche altro dio

non ti dica 

descansate niño

che continuo io

 

Vorrei che unissimo tutte le nostre forze per non correre il rischio che il suo pensiero vada disperso nella frammentazione, nel depauperamento, nella lenta eclissi, nell’utilizzazione superficiale e improvvisata delle sue lezioni, nel copia e incolla di facile fattura, nelle ripetizioni passive.

Servirebbe una forte volontà che vada di pari passo con il rilancio e il potenziamento della LIDI, con la cura del sito, con gli aggiornamenti dei risultati, delle esperienze e delle idee del gruppo di psicoterapeuti indicati da Luigi nel suo Testamento e con le testimonianze delle sue e dei suoi numerosi allievi, pazienti e discepoli.

 

Credo ci sia bisogno di formare un punto e un momento di incontro, una struttura di continuità, un qualcosa da definire meglio: Associazione, Gruppo, Impresa, Società, Cooperativa o quello che sia.

 

Io la chiamerei ALA. Associazione Luigi Anepeta.

L’ala serve a volare ma una sola non basta, ce ne vogliono due.

Quella che già abbiamo è tutto quello che Anepeta ha inventato, creato, costruito e vissuto.

Quella che manca la dobbiamo costruire.

 

Come potrà avvenire tutto ciò non lo so. Sarebbe necessario che l’umanità si spogliasse di illusioni e giungesse a vivere le sue vicende come una sfida evolutiva, drammaticamente ancora aperta a due possibilità. Ma affinchè ciò avvenisse, l’umanità dovrebbe viversi così come è: una specie bambina che sta tentando, con esiti contraddittori, di capire, da poche migliaia di anni, cosa fare con la prodigiosa e inquietante macchina che la natura le ha installato nella testa da La macchina prodigiosa e inquietante che la natura ha installato nella nostra testa.

 

Fiore Bruno

 

*


Per spiegare la
psicopatologia strutturale dialettica riportiamo un estratto da un libro di Luigi Anepeta stesso, Star male di testa, cap. IV “La grande fuga”/ L’attacco di panico.

 

(…)
Visto che l’ho tirato in ballo, lo schiavo fuggitivo – pace all’anima sua – lo sfrutto un po’ anch’io. Oggi non abbiamo difficoltà a capire che egli lasciava moglie, figli e parenti per assecondare una rivendicazione viscerale di diritti – libertà, giustizia, pari dignità – che solo dopo qualche tempo sarebbero stati riconosciuti ufficialmente come “naturali”.

Fuggiva, insomma, verso un mondo nel quale non esistono padroni e catene e l’uomo viene rispettato nella sua dignità. Da dove l’aveva ricavata questa strana aspirazione se i padri, i nonni e i bisnonni, istruiti dai missionari, gli avevano presumibilmente insegnato che nascere schiavi è frutto della volontà di Dio? Evidentemente c’era arrivato da sé o, per meglio dire, se l’era ritrovata dentro. Prova ulteriore, questa che il sogno di un mondo fatto a misura d’uomo è confitta nelle viscere del congegno. Spinto dall’utopia, però, il poveraccio non valutava bene le conseguenze della fuga sul suo equilibrio mentale. Condizionato culturalmente (da secoli e secoli) a sentirsi parte indivisibile di un gruppo, separandosene, lacerava un vincolo di appartenenza emotivamente essenziale per la sua identità psicologica. Finché durava la rabbia e l’esaltazione del riscatto, l’equilibrio reggeva. Quando essa si affievoliva e giungeva a sentirsi infinitamente solo, sopravveniva l’angoscia, il senso di smarrimento, la confusione, ecc. Che cosa accadeva nella sua testa si può, a occhio e croce, ricostruire. Una motivazione – la nostalgia del gruppo e del ruolo che in esso ricopriva – lo spingeva a tornare dietro, un’altra – la rabbia nei confronti del padrone e la paura della rappresaglia – ad andare avanti. Il carattere antitetico di queste spinte motivazionali produceva, infine, la catastrofe.

 

Che nell’anima umana si possa dare (e di fatto sia dia) una dualità motivazionale è stato intuito da sempre da parte dei filosofi. Con il mito dell’Auriga, Platone, forse, ha fornito una prima illustrazione di quanto c’è di dinamico e potenzialmente conflittuale nell’anima umana. Facendo atterrare la sua biga sulla Terra, la questione potrebbe essere posta in questi termini: se si attaccano due cavalli alle estremità opposte di un carro e li si sferza a sangue sul groppone, ciascuno dei due comincia a darsi al galoppo nella direzione della fuga dal dolore. Dato che le direzioni sono opposte, gli effetti dipendono dalla paura e dalla potenza dei cavalli. Se uno è più potente dell’altro, se lo trascina dietro con tutto il carro. Se la potenza è pari, il carro strattonato va in pezzi. Se, al posto dei cavalli, poniamo due motivazioni, che possono essere – l’una, l’altra o entrambe del tutto inconsce –, la metafora si avvicina molto a quello che accade nei soggetti che, in conseguenza dell’attivazione di un conflitto psicodinamico, manifestano dei sintomi. Le motivazioni in conflitto, come vedremo, possono essere del più vario genere. La struttura del conflitto, invece, ha qualcosa di universale, che si riconduce, per farla semplice, alla contrapposizione più o meno frontale tra le ragioni degli altri e le ragioni dell’io (siano, le une e le altre, ben intese o, come accade più spesso, malintese).

 

Alla luce di questo, non è strano che la storia dello schiavo fuggitivo abbia ancora una sorprendente attualità. Due fatti lo provano. Il primo è legato agli immigrati che fuggono dalle catene della miseria e spesso si lanciano verso l’Occidente in avanscoperta, nel tentativo di stabilire una testa di ponte che possa permettere ai parenti di raggiungerli. Separati dal gruppo parentale e immersi in un ambiente culturale radicalmente diverso da quello originario, se non riescono rapidamente a stabilire rapporti con conterranei, alcuni giungono a dare i numeri. Solo tornando indietro, recuperano l’equilibrio. Esperienze del genere provano, se ce ne fosse bisogno, che l’identità individuale riconosce come una delle sue componenti l’immagine depositata nella rete delle relazioni significative che il soggetto intrattiene. Se salta questa rete, l’identità può andare incontro ad un collasso. In alcune culture, comunitaristiche (lo sono gran parte di quelle che vivono fuori dall’Occidente), l’appartenenza al gruppo è ancora un fattore essenziale per l’equilibrio psicologico. Nella nostra, che si fregia di essere individualistica, le cose non vanno diversamente, anche se si fa finta di non saperlo. Il secondo fatto concerne, per l’appunto, gli indigeni. In Occidente la schiavitù delle catene (di metallo) non esiste più. È in atto però una grande fuga che ha la forma di un iceberg che, anziché sciogliersi, si ingrossa. La punta è costituita da quelli che, dandosela a gambe levate, incappano nelle maglie di “Chi la visto?”, che autorizza qualunque cittadino a mettersi la stella di sceriffo e a darsi da fare per eseguire l’ordine di cattura. Il corpo dell’iceberg è rappresentato da quelli che, spesso senza neppure sapere di albergare un desiderio di fuga, vengono bloccati sulla linea di partenza o costretti rapidamente a tornare dietro. Da cosa? Da una paura fottuta che, un bel giorno, li sorprende da soli per strada ed evoca immediatamente il riferimento alla casa come rifugio e ad un parente come ancora di salvezza. Sperimentata una volta, la paura rimane in memoria e l’orizzonte della libertà si restringe alquanto.

 

Gli psichiatri parlano di attacchi di panico agorafobici, vale a dire che insorgono in spazi aperti, per distinguerli dagli attacchi di panico claustrofobici, che intervengono in rapporto a spazi chiusi, dagli attacchi di panico semplici, che possono sopravvenire in qualunque situazione, da quelli dovuti al sentirsi esposti al giudizio sociale, ecc. Tutte queste condizioni, secondo loro, rientrerebbero nell’ambito del disturbo di ansia, vale a dire di una malattia dovuta al fatto che la natura, in alcuni soggetti, non tara bene i centri emozionali. Per ciò, basterebbe un nonnulla a squilibrarli. Si tratta, al solito, di una sciocchezza. In quelle stesse situazioni che scatenano il panico, il soggetto si è ritrovato, in precedenza, infinite volte senza accusare alcun malessere. Perché un bel giorno si scatena la bagarre?

Il grilletto dell’angoscia, negli attacchi di panico con agorafobia, è la distanza fisica alla casa, da un parente o, al limite, da un amico. Si tratta insomma di un singolare morbo geometrico. Dopo il primo attacco, infatti, il soggetto si trova – per così dire – chiuso in un cerchio magico il cui centro è, di solito, lo spazio domestico e la cui circonferenza varia da caso a caso, ma è comunque ristretta. Nei casi più gravi coincide con l’uscio di casa, sicché il malcapitato è ridotto agli arresti domiciliari; nei casi meno gravi, può arrivare alla periferia del luogo di residenza. Il cerchio è magico nel senso che, se si tenta di varcarlo da soli, sopravviene il mammagone. In compagnia di una persona di famiglia le cose vanno un po’ meglio, anche se la paura di stare male persiste. Paura di che? Ciascuno la descrive a modo suo, ma il succo è sempre lo stesso. Al di là del confine, il rischio vissuto si configura come una catastrofe fisica e/o psichica. (…)

Dentro il confine, non è detto che siano rose e fiori. Qualcuno riesce a stare tranquillo, qualche altro, sentendosi incarcerato, può avere un attacco di claustrofobia. Deve tenerselo però, perché la paura di andare allo scoperto è più forte, e può essere affrontata solo in compagnia di un parente, che funge da angelo custode. Che significa il cerchio magico? Gli psichiatri tirano fuori, al solito, la storia dell’eredità.

In famiglia – è vero – si trova spesso qualche precedente: per esempio, la mamma che ha avuto qualcosa del genere anni prima. Se non si trova un precedente, lo si può sempre ammettere. In fondo discendiamo tutti da Adamo ed Eva, che un bell’attacco di panico devono averlo provato per forza dopo lo sfratto dall’Eden. Il morbo geometrico però, da qualche anno a questa parte, ha un andamento epidemico nel nostro mondo. Si diffonde in pratica con una velocità di gran lunga superiore a quella dei geni, che impiegano una generazione a replicarsi. (…)

 

Il vero significato dei sintomi si ricava dagli effetti che essi producono nell’organizzazione di vita e nel rapporto del soggetto col mondo sociale. Nessuno muore, impazzisce o perde il controllo in conseguenza degli attacchi di panico. Tutti però rimangono terrorizzati, anche dopo che la tempesta si è placata, perdono la libertà di muoversi autonomamente nel mondo, fino al limite estremo degli arresti domiciliari, e regrediscono in una condizione di dipendenza che investe, oltre ai medici, ai quali si può chiedere solo di essere rassicurati, i familiari, ai quali invece viene richiesto un aiuto e un sostegno costante.

 

R. è una figlia giudiziosa che non dà problemi fino a sedici anni. Frequenta la scuola, la parrocchia, aiuta la madre in casa. Sotto l’acqua cheta, qualche problemino c’è. Da qualche anno, R. si chiede nel suo intimo perché solo lei deve aiutare la madre mentre il fratello, di due anni maggiore, sta sbracato sul letto a leggere i fumetti o va a giocare al calcio. Si chiede pure perché la madre deve rendere conto di ogni spostamento al padre, che è geloso, mentre lui, che sta fuori tutto il giorno per lavoro, non subisce alcun controllo. Non arriva naturalmente a nessuna conclusione se non che nascere donna non è, forse, una buona cosa. Una sola volta osa chiedere lumi al padre, che nel suo intimo considera un padreterno. La risposta la tramortisce: delle donne – dice il padre – non ci si può fidare. A sedici anni, R. comincia a frequentare una comitiva. È una frequentazione ingenua che si riduce all’incrociare i fioretti del corteggiamento. Il padre entra in azione. Le fa presente che è troppo presto per darsi da fare con gli uomini, le impone di non allontanarsi dai giardinetti sotto casa, la obbliga a rispettare rigorosamente l’ora del rientro, che coincide col tramonto. Con la chiusura della scuola per le vacanze estive, questi limiti vanno un po’ stretti a R. Un giorno accetta di andare a prendere un gelato lontano da casa con un ragazzo che ha la macchina e due amiche. Al ritorno, dopo avere accompagnato le amiche, si ferma sotto casa a chiacchierare col ragazzo. Il padre, che rientra dal lavoro, la coglie in fallo. La tira giù dalla macchina e la schiaffeggia, trascinandola in casa e trattandola come una “donnaccia”. La punizione è severissima. R. non potrà uscire di casa, se non in compagnia della mamma, fino alla ripresa della scuola.

 

Benché ingiusta, e subita con rabbia, la punizione sconsiglia a R. di sfidare ulteriormente il padre. Se ne sta buona per due anni. Poi il padre ammala di tumore, nel giro di sei mesi è ridotto pelle e ossa e si ricovera. R. si rende conto che la sua fine è vicina ma, sorprendentemente, non avverte il dolore che dovrebbe avvertire. Al posto del dolore, anzi, avverte un senso di liberazione. Profittando dell’assenza del padre, ricomincia a uscire, a frequentare ragazzi, a tirare tardi la notte. La madre chiude un occhio, perché la capisce. Il padre muore. Al cimitero, R. ha una violenta vertigine.
Dopo un mese, vissuto, in spregio al lutto, all’insegna dei topi che ballano, sopravviene un violento attacco di panico per strada. R. si ritrova chiusa in casa e impossibilitata a varcare da sola la soglia di casa, se non per andare a fare la spesa. Non avendo altro cui pensare, passa il tempo a spicciare casa e a preparare il pranzo. Per effetto dell’attacco di panico, insomma, è ridiventata la brava ragazza che sarebbe dovuta rimanere.

 

Nonostante quello che pensa il soggetto che lo sperimenta, l’attacco di panico è finalizzato unicamente a togliergli una libertà che egli ha amministrato male, nel senso che ha tentato di realizzarla in maniera incompatibile o con la sua sensibilità sociale e morale o con i valori culturali trasmessi dal gruppo di appartenenza e interiorizzati in fase evolutiva. In entrambi i casi, insomma, l’effetto del panico è di ricondurre il soggetto o più a contatto con se stesso o più a contatto con gli altri.

 

Che si tratti di una finalità inconscia e non semplicemente di un effetto traumatico è attestato, per un verso, dal persistere della dipendenza anche nei casi in cui il panico non si presenta più e, per un altro, dal cerchio magico che segnala il confine invalicabile. Nel caso di R., il cavallo che strattona nella direzione del rispetto dei valori tradizionali, trasmessi dal padre, tiene a bada l’altro che scalpita sulla via della fuga, del tradimento e del misconoscimento dei vincoli sociali.

 

Questo vale per gran parte degli attacchi di panico, anche per quelli che intervengono a ciel sereno, vale a dire senza nessuna apparente ribellione del soggetto ai ruoli e ai doveri sociali. Il panico, di fatto, investe spesso persone che sembrano fin troppo intruppate e normali: figli e figlie che sono la gioia dei genitori perché vanno bene a scuola, non fumano, non frequentano cattive compagnie, non hanno grilli per la testa, ecc.; donne sposate che dedicano la loro vita alla casa, al marito, ai figli e ai parenti; donne che non si sono sposate per accudire i genitori; lavoratori stakanovisti che non fanno un giorno di malattia e si accollano spesso le responsabilità altrui.

 

Se si gratta sotto la superficie, il cavallo riottoso lo si scopre subito: nel loro intimo, figli e figlie modello hanno le balle piene di logorarsi per soddisfare le aspettative dei genitori, degli insegnanti, e sognano di cambiare registro, vita e aria; le donne che si annullano per gli altri li odiano: alcune sognano di tradire il marito, altre di mandare a quel paese casa e figli, altre ancora aspettano la morte del padre, della madre, dei suoceri a carico come una liberazione; i lavoratori stakanovisti odiano coloro che li sfruttano e sognano le Hawaii.

 

Non c’è nulla di meglio della virtù e del senso del dovere, evidentemente, per portare la gente all’esasperazione. E infatti, sotto le apparenze, si tratta, di gente – lo sappia o no – che non sopporta più la “way of life” quotidiana e vorrebbe cambiare aria, vita e, talvolta, pianeta. Gente che, nel suo intimo, si chiede ogni giorno perché è fatta com’è fatta e perché il mondo è fatto com’è fatto. E non trova risposta se non il tu devi che rimbomba nella testa e che, evidentemente, negli altri funziona meno. Si tratta anche di gente tosta perché impiega parecchio per arrivare al botto che, di solito, sopravviene repentinamente. Quello che accade, un bel giorno, è che al tu devi si contrappone un basta, non ne posso più, odio tutto e tutti. Pochi si rendono conto di pensare una cosa del genere e ne rimangono inorriditi, i più ne sono inorriditi al punto di non concedersi neppure di farla affiorare a livello cosciente. Non fa differenza. I due cavalli funzionano anche se il vetturino non s’accorge che cominciano a strattonarlo.

 

 

N.B. Ricordiamo la possibilità di approfondire il pensiero di L. Anepeta, consultando i suoi libri e i suoi scritti nel sito www.nilalienum.it e ascoltando il racconto a cura di Elvira Rossi, amica e collega di Anepeta, presente nella quarta puntata di radio saltuaria (www.blutstudio.it).